Rachel (Becky)
Behar
Behar
Nome
Rachel (Becky)
Cognome
Behar
Sesso
F
Luogo di nascita
Belgio
Data nascita
8 gennaio 1929
Padre
Behar Alberto
Madre
Eugenia
Luogo di morte
Milano
Data della morte
16 gennaio 2009
Attività partigiana
Matricola
Ruolo
Note
Note biografiche
Nel 1943, quattordicenne, viveva a Meina: i continui bombardamenti su Milano avevano indotto suo padre Alberto Behar, ebreo turco, a trasferirsi con la famiglia sul lago Maggiore, a Meina, dove aveva rilevato da una vedova in difficoltà economiche un albergo.
Dopo il bombardamento della sede del consolato turco a Milano, nella cittadina erano venuti ad abitare anche il vice-console e il console turco, Niebil Hertog, al quale il signor Behar aveva ceduto la propria casa, trasferendosi con la famiglia nell'hotel di sua proprietà.
Dopo il bombardamento della sede del consolato turco a Milano, nella cittadina erano venuti ad abitare anche il vice-console e il console turco, Niebil Hertog, al quale il signor Behar aveva ceduto la propria casa, trasferendosi con la famiglia nell'hotel di sua proprietà.
Salvataggio
La presenza a Meina del console turco fu determinante affinchè la famiglia Behar scampasse alla strage: quando, dopo il sequestro degli ebrei ospiti dell'hotel Meina, Alberto Behar, di cittadinanza turca, venne arrestato dalle SS e condotto al comando di Baveno, il console turco impose ai tedeschi la sua liberazione, minacciando di scatenare un incidente diplomatico (la Turchia era ancora un paese neutrale). Grazie all'intervento del console la famiglia Behar non seguì le sorti degli altri ebrei presenti nell'hotel.
Clandestinità-fuga
Dal diario di Becky Behar:
«[Dopo l'eccidio di Meina] Anche la nostra vita era in pericolo. Decidemmo di scappare dalle grinfie di quei banditi.
Separatamente, nelle prime ore del mattino partimmo: mia sorella e io alla volta di Varese, dove restammo fino che i nostri genitori ci raggiunsero. Ma ben presto apprendemmo che i nostri nemici avevano scoperto il nostro nascondiglio e fuggimmo di nuovo. Che vita di vagabondi fu quella! Talvolta non sapevo neppure dove si nascondesse il resto della mia famiglia.
Capimmo in breve che in quel modo non potevamo continuare e che mettevamo a repentaglio la vita delle persone che gentilmente si prestavano a ospitarci.
Così ci risolvemmo a partire per la Svizzera. Nella notte, accompagnati da una guida, marciammo a lungo attraversando foreste interminabili.
Arrivammo in una cascina nei pressi delle rete che dovevamo attraversare lì passammo la notte: la guida ci aveva avvertiti che i tedeschi vigilavano i paraggi muniti di cani. Ci coricammo in una stalla con dodici vacche e alle quattro del mattino ci mettemmo in marcia. La strada era lunga e faticosa….un freddo intenso ci penetrava nelle ossa, silenziosi e compatti marciavamo, e al solo muoversi di qualche foglia nasceva in noi il timore di essere stati scoperti.
Ma ecco che il giorno 12 novembre 1943 ci trovammo sani e salvi in Svizzera».
«[Dopo l'eccidio di Meina] Anche la nostra vita era in pericolo. Decidemmo di scappare dalle grinfie di quei banditi.
Separatamente, nelle prime ore del mattino partimmo: mia sorella e io alla volta di Varese, dove restammo fino che i nostri genitori ci raggiunsero. Ma ben presto apprendemmo che i nostri nemici avevano scoperto il nostro nascondiglio e fuggimmo di nuovo. Che vita di vagabondi fu quella! Talvolta non sapevo neppure dove si nascondesse il resto della mia famiglia.
Capimmo in breve che in quel modo non potevamo continuare e che mettevamo a repentaglio la vita delle persone che gentilmente si prestavano a ospitarci.
Così ci risolvemmo a partire per la Svizzera. Nella notte, accompagnati da una guida, marciammo a lungo attraversando foreste interminabili.
Arrivammo in una cascina nei pressi delle rete che dovevamo attraversare lì passammo la notte: la guida ci aveva avvertiti che i tedeschi vigilavano i paraggi muniti di cani. Ci coricammo in una stalla con dodici vacche e alle quattro del mattino ci mettemmo in marcia. La strada era lunga e faticosa….un freddo intenso ci penetrava nelle ossa, silenziosi e compatti marciavamo, e al solo muoversi di qualche foglia nasceva in noi il timore di essere stati scoperti.
Ma ecco che il giorno 12 novembre 1943 ci trovammo sani e salvi in Svizzera».
Testimonianza
Nel novembre del 1943, quando già si trovava in Svizzera alla St. George School, Becky Behar scrisse un diario in cui raccontò gli avvenimenti di cui fu testimone e protagonista.
Dal diario di Becky Behar:
«…Ricordo…vivevo con la mia famiglia in un bel paesino del lago Maggiore, la guerra ci aveva costretto ad abbandonare Milano a causa dei continui bombardamenti. Mio padre aveva delle case e un albergo dove noi abitavamo. Ero veramente felice, non mi mancava nulla ed ero circondata dall’affetto dei miei genitori e da qualche vera amicizia…
Una mattina venni svegliata di soprassalto da rombi di motori di camion che si fermavano nelle vicinanze dell’albergo.
Corsi in camera di mia madre, dove era già riunita tutta la famiglia. Dalla finestra osservammo sgomenti quello che stava succedendo: gruppi di tedeschi scendevano dai camion muniti di fucili e mitragliatrici e, agli ordini dei comandanti, in un batter d’occhio tutto l’albergo venne circondato, tutte le entrate vennero sbarrate e noi ebrei catturati…
Ci trasferirono all’ultimo piano, nella camera 420, e lì, ammassati uno sopra l’altro, chiusi a chiave, rimanemmo per giorni. Eravamo tutti insieme, io e la mia famiglia con gli altri prigionieri ebrei che non si sarebbero salvati…
Due uomini altissimi, appartenenti alla Gestapo, saputo che mio padre era il proprietario dell’albergo, gli dissero: ”Sappiate che da questo momento niente più vi appartiene, avete dato ospitalità nel vostro albergo a degli ebrei, avete quindi aiutato i nemici della Germania”.
Da un mese si trovavano in albergo alcune famiglie di ebrei emigrati dalla Grecia e mio padre, senza fare nessuna eccezione per loro, li trattava come gli altri clienti.
Vi era una giovane sposina con suo marito e i suoceri, cari vecchietti che non dimenticherò mai! Un’altra famiglia composta di marito, moglie e quattro figli; un’altra coppia composta di marito e moglie con un figlio studente in Inghilterra. Queste famiglie di ebrei provenivano da Salonicco ed erano arrivate in Italia per sfuggire al nazismo. Erano tutte persone di cittadinanza italiana.
Ricordo le giornate passate con queste famiglie, ricordo i loro racconti, le prime descrizioni dei massacri nazisti a Salonicco, i ricordi della loro vita. Noi bambini eravamo amici e abbiamo passato tante ore felici insieme.
Pure ebrei erano altri due giovanotti impiegati presso mio padre da lungo tempo e che il giorno dell’occupazione si trovavano in albergo solo per combinazione, dato che lavoravano negli uffici di Milano.
Questi erano per i tedeschi i nemici della Germania! …
Nelle prime ore del mattino due tedeschi vennero a prendere mio padre dicendogli di doverlo condurre al comando di Baveno per interrogarlo.
Il console turco, amico di mio padre, si trovava nella nostra villa , essendo stata bombardata la sua casa a Milano. Avvertito quindi dell’arresto di mio padre, si era recato immediatamente al comando dicendo che per nessuna ragione i tedeschi avevano il diritto di arrestare un cittadino turco innocente: aveva chiesto quindi la liberazione di mio padre e di tutti noi, altrimenti avrebbe fatto sorgere una questione diplomatica, essendo la Turchia una nazione neutrale. E così fummo liberati.
Ma quei poveri ebrei erano sempre prigionieri in quella camera, attendendo che si decidesse la loro sorte con un ammirevole coraggio.
I tedeschi come al solito continuavano a ubriacarsi, a rubare e a divertirsi a modo loro.
Nella notte del 22 giunsero all’albergo due macchine tedesche per portar via quei poveri ebrei arrestati. E nelle prime ore del mattino una terribile notizia si sparse in tutto il paese: alcuni cadaveri erano stati trovati nel lago dai pescatori, che li avevano ricondotti a riva, dove molta gente li aveva riconosciuti: erano gli ebrei segregati in albergo».
Una mattina venni svegliata di soprassalto da rombi di motori di camion che si fermavano nelle vicinanze dell’albergo.
Corsi in camera di mia madre, dove era già riunita tutta la famiglia. Dalla finestra osservammo sgomenti quello che stava succedendo: gruppi di tedeschi scendevano dai camion muniti di fucili e mitragliatrici e, agli ordini dei comandanti, in un batter d’occhio tutto l’albergo venne circondato, tutte le entrate vennero sbarrate e noi ebrei catturati…
Ci trasferirono all’ultimo piano, nella camera 420, e lì, ammassati uno sopra l’altro, chiusi a chiave, rimanemmo per giorni. Eravamo tutti insieme, io e la mia famiglia con gli altri prigionieri ebrei che non si sarebbero salvati…
Due uomini altissimi, appartenenti alla Gestapo, saputo che mio padre era il proprietario dell’albergo, gli dissero: ”Sappiate che da questo momento niente più vi appartiene, avete dato ospitalità nel vostro albergo a degli ebrei, avete quindi aiutato i nemici della Germania”.
Da un mese si trovavano in albergo alcune famiglie di ebrei emigrati dalla Grecia e mio padre, senza fare nessuna eccezione per loro, li trattava come gli altri clienti.
Vi era una giovane sposina con suo marito e i suoceri, cari vecchietti che non dimenticherò mai! Un’altra famiglia composta di marito, moglie e quattro figli; un’altra coppia composta di marito e moglie con un figlio studente in Inghilterra. Queste famiglie di ebrei provenivano da Salonicco ed erano arrivate in Italia per sfuggire al nazismo. Erano tutte persone di cittadinanza italiana.
Ricordo le giornate passate con queste famiglie, ricordo i loro racconti, le prime descrizioni dei massacri nazisti a Salonicco, i ricordi della loro vita. Noi bambini eravamo amici e abbiamo passato tante ore felici insieme.
Pure ebrei erano altri due giovanotti impiegati presso mio padre da lungo tempo e che il giorno dell’occupazione si trovavano in albergo solo per combinazione, dato che lavoravano negli uffici di Milano.
Questi erano per i tedeschi i nemici della Germania! …
Nelle prime ore del mattino due tedeschi vennero a prendere mio padre dicendogli di doverlo condurre al comando di Baveno per interrogarlo.
Il console turco, amico di mio padre, si trovava nella nostra villa , essendo stata bombardata la sua casa a Milano. Avvertito quindi dell’arresto di mio padre, si era recato immediatamente al comando dicendo che per nessuna ragione i tedeschi avevano il diritto di arrestare un cittadino turco innocente: aveva chiesto quindi la liberazione di mio padre e di tutti noi, altrimenti avrebbe fatto sorgere una questione diplomatica, essendo la Turchia una nazione neutrale. E così fummo liberati.
Ma quei poveri ebrei erano sempre prigionieri in quella camera, attendendo che si decidesse la loro sorte con un ammirevole coraggio.
I tedeschi come al solito continuavano a ubriacarsi, a rubare e a divertirsi a modo loro.
Nella notte del 22 giunsero all’albergo due macchine tedesche per portar via quei poveri ebrei arrestati. E nelle prime ore del mattino una terribile notizia si sparse in tutto il paese: alcuni cadaveri erano stati trovati nel lago dai pescatori, che li avevano ricondotti a riva, dove molta gente li aveva riconosciuti: erano gli ebrei segregati in albergo».