All’atto dell’armistizio l’Italia non dichiara guerra alla Germania, lo farà solo il 16 ottobre. In questo periodo, come fa notare lo stesso Eisenhower a Badoglio, i soldati italiani in caso di resistenza attiva o passiva sarebbero stati considerati (come di fatto avvenne) “franchi tiratori” e quindi non avrebbero goduto delle garanzie internazionali previste per i prigionieri di guerra. I militari italiani disarmati e catturati dopo l’8 settembre dai tedeschi in Italia e all’estero (in particolare nei Balcani) superano il milione. Vengono subito considerati internati militari (IMI)[1] per ordine di Hitler, rinchiusi in appositi campi e utilizzati come lavoratori per le aziende belliche tedesche[2]. Agli Imi catturati viene data a più riprese e insistentemente l’opportunità di ritornare in libertà arruolandosi con i tedeschi o con le neonate truppe della Rsi, ma solo una parte minoritaria di loro accetta (circa il 25% degli ufficiali e il 10% dei soldati). Considerando tutti quelli deceduti durante la cattura o successivamente, quelli che riescono a scappare o comunque a tornare in libertà e tenuto conto che l’esenzione al lavoro per gli ufficiali termina di fatto nell’estate del 1944 quando, sulla base di un accordo tra Hitler e Mussolini, tutti gli IMI vengono trasformati in “lavoratori civili”, la cifra complessiva dei militari italiani usati come manodopera schiavile supera abbondantemente le 400.000 persone[3].
Una quota relativamente ridotta di loro viene però deportata nei KL per diverse ragioni, a volte del tutto casuali. I nomi segnalati nel nostro archivio sono di pochi deportati, sedici per la precisione, dieci sopravvissuti al lager e alcuni di loro intervistati da Gisa Magenes (le registrazioni sono conservate all’Istituto storico della Resistenza Piero Fornara di Novara e in parte pubblicate[4]).
Nonostante sia un piccolo campione di persone, le loro storie sono in gran parte diverse. Ci sono militari come Marco Apruzzese, Francesco Lamagni, Gaudenzio Peroni e probabilmente anche Gaudenzio Andreoletti che, per reati vari, per lo più di insubordinazione[5], sono già condannati dalle Forze armate italiane e rinchiusi nel carcere di Peschiera: dopo l’8 settembre i tedeschi li prelevano e di fatto li trattano come fossero politici mandandoli nel Kl di Dachau (trasporto n. 2 del 20 settembre 1943). Militari arrestati dai tedeschi in seguito all’8 settembre sia sul fronte orientale sia in Italia sono invece Renato Colombo, Cornelio De Taddeo[6], Celso Mascagni, Giuliano Nicolini[7], Giovanni Poverino, Isidoro Saccaggi, Aldo Scendrati, Bruno Segaia. Alcuni finiscono direttamente in un KL (principalmente Dora e Dachau ), per altri ci sono prima dei passaggi in campi per IMI.
Più anomale risultano le vicende degli altri quattro, militari in fuga o disertori che vengono successivamente arrestati. I cameresi Francesco Daverio e Giuseppe Migliorini verranno entrambi deportati come lavoratori coatti: il primo internato come IMI e rientrato successivamente in Italia, viene arrestato come sabotatore nella fabbrica dove lavora; il secondo scappa a casa dopo l’8 settembre, ma viene arrestato e costretto ad arruolarsi nelle forze della Rsi, da dove nuovamente fugge prima dell’arresto definitivo e della deportazione. Anche l’ossolano Carmelo Paini scappa dopo l’armistizio ed è costretto ad arruolarsi nella milizia fascista nella primavera del 1944, ma diserta nuovamente e viene catturato dai tedeschi che lo deportano in Turingia. E’ una storia di diserzione anche quella del pavese Carlo Fontanella che scappa dal centro addestramento di Casale Monferrato nel febbraio 1944 per non giurare fedeltà alla Rsi rifugiandosi a Cravegna in Valle Antigorio, dove però viene catturato dalle SS nell’aprile 1944 e deportato prima a Bolzano e successivamente a Flossenbürg.
[1] Denominazione che “serve a distinguere i soldati italiani, assegnati a campi chiamati Stalags o Offlags, dagli altri prigionieri di guerra ai quali sono applicate le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929 e rinchiusi nei Krigsgefngenlager.” (Carlo Palumbo, Ritorno a Cefalonia e Corfù, EdiSteiner Torino, 2003.).
[2] “Questi italiani, definiti inizialmente prigionieri di guerra, vennero trasformati già il 26 settembre in internati militari italiani (IMI). Con questa forzatura giuridica le autorità tedesche ottenevano un doppio risultato: da un lato venivano incontro ad un desiderio delle autorità repubblichine, che volevano affermare – in primo luogo di fronte al governo rivale del Regno d’Italia – la loro sovranità su questi italiani, e pertanto ritenevano lo status di prigionieri di guerra incompatibile con il rapporto di alleanza ristabilito con la Germania; ma al tempo stesso realizzavano un importante vantaggio per se stesse proprio sul piano dell’impiego lavorativo, in quanto gli internati militari non facevano parte delle categorie protette dalla Convenzione di Ginevra del 1929, e quindi, essendo sottratti al controllo del Comité international de la Croix-Rouge, potevano essere impiegati liberamente nelle attività proibite dalla Convenzione, in particolare – appunto – nell’industria bellica.” (Luigi Cajani, Gli internati militari italiani nell’economia di guerra nazista, in Fra sterminio e sfruttamento, a cura di Nicola Labanca, Casa Editrice Le Lettere, 1992)
[3] Cfr. Gerhard Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del III Reich, Ufficio storico SME, 1992; cfr. anche Gerhard Schreiber, Gli internati militari italiani e tedeschi e Giorgio Rochat, La società dei lager; Brunello Mantelli, L’arruolamento di civili italiani come manodopera per il Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943, tutti compresi nel volume Fra sterminio e sfruttamento, a cura di Nicola Labanca, cit.
[4] Cfr. La vita offesa, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Franco Angeli, 1986.
[5] Marco Abruzzese si ferisce volontariamente a una mano per smettere di combattere (è militare di leva in Albania) e nel giugno del 1941 viene condannato a vent’anni di carcere a Gaeta. Dopo lo sbarco alleato è trasferito a Peschiera. Sorte simile anche per Gaudenzio Peroni che si trova in Istria quando viene arrestato per insubordinazione e diserzione. Nell’autunno del 1942 è nel carcere di Gaeta da dove poi verrà spostato nell’agosto del 1943 finendo a Peschiera.
[6] Cornelio De Taddeo, di Trobaso nel Verbano, si trova a Torino come alpino di leva all’arrivo dei tedeschi. Tenta di fuggire, ma viene catturato e internato a Lückenwalde a metà settembre 1943. Un mese dopo viene spostato nel KL di Dora Mittelbau, dove vive e lavora nelle gallerie perché non ci sono ancora le baracche. Finirà poi a Bergen Belsen e verrà liberato il 15 aprile 1945.
[7] Decorato alla memoria con medaglia d’argento al valor militare nel dopoguerra per i fatti avvenuti nel febbraio del 1945. Arrestato dai tedeschi nel settembre 1943 in Montenegro, viene mandato nei campi per IMI, ma quando è a Wietzendorf, gli viene ordinato con altri compagni di raggiungere l'aeroporto di Dedelsdorf, allora in disuso, per attirare i bombardamenti alleati, facendo da scudi umani. I militari italiani però si ribellano e le SS ne prelevano 21 da fucilare, ma altri 44, tra cui Nicolini, si offrono al loro posto. I tedeschi colpiti dal gesto degli ufficiali decidono di non ucciderli deportandoli però a Unterlüss, campo di punizione e rieducazione. Sei di questi muoiono, tre dei quali per la violenze subite dai sorveglianti, come lo stesso Nicolini, percosso a morte.