Le differenze tra i campi del sistema concentrazionario tedesco, a cui si aggiungono i “campi del duce” in Italia, ci sono e in alcuni casi sono sostanziali, nonostante le esigenze economiche della Germania per gli sviluppi bellici e i trasferimenti dei deportati a causa dell’avanzata sovietica le riducano, aumentando la mescolanza tra tipologie di deportati.
Il 22 marzo del 1933 viene aperto il campo di Dachau, prototipo dei campi di concentramento (KL) gestiti dalle SS, per rinchiudere principalmente politici, ma anche chi conduce una vita considerata contraria ai valori del Reich (emarginati, vagabondi, omosessuali, prostitute). Ci finiranno comunque anche ebrei, rom e sinti, testimoni di Geova. Lo scopo di Dachau e degli altri KL sorti successivamente è punitivo e rieducativo, ma con la creazione di aziende gestite dalle SS che sfruttano manovalanza gratuita e schiavile e poi dal 1939 con l’arrivo delle grandi industrie private che utilizzano anch’esse i deportati, l’obiettivo economico diventa prevalente costringendo al lavoro forzato tutti i detenuti. I campi principali si ingrandiscono con una ragnatela di sottocampi. In qualche caso ci sono camere a gas per eliminare deboli e malati, ma principalmente le persone vengono uccise dalle malattie, dalla fame, dal lavoro, dalla violenza e dalle punizioni. Sono invece spesso presenti i forni crematori per lo smaltimento dei cadaveri.
Diversi gli obiettivi di quelli che “tecnicamente” vengono definiti campi di sterminio (VL). Sono principalmente sei, collocati tutti nell’area polacca occupata dai tedeschi all’inizio della guerra: Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek e Auschwitz 2 (Birkenau). Alcuni di essi, Majdanek e Auschwitz svolgono anche funzioni di campo di concentramento (Auschwitz 1 e 3, la Duma, dove finisce Primo Levi). Sono l’esito delle disposizioni di Hitler nell’estate del 1941[1] (poi ufficializzate nella conferenza di Wansee del gennaio del 1942) e hanno l’obiettivo di eliminare fisicamente gli ebrei rinchiusi nei ghetti del Governatorato polacco. Ma la stessa sorte toccherà anche ai prigionieri di guerra sovietici e polacchi, ai rom e ai sinti e ci passeranno anche deportati non ebrei (come le tre operaie Giannini, Cirini e Campana presenti nel database). Anche in questi campi, come ben raccontato da Primo Levi, dalla primavera del 1942 (con la circolare di Oswald Pohl) prevalgono le esigenze economiche e quindi iniziano le periodiche “selezioni” per uccidere solo quelli non più abili al lavoro.Sono in attività con tempi e modalità differenti, dal dicembre 1941 (Chelmno) al gennaio 1945. In tutti sono presenti camere a gas, all’inizio rudimentali (si sfrutta il monossido di carbonio del motore dei carri armati) e poi più evolute (utilizzando lo Zyklon B, acido cianidrico). Solo all’inizio i cadaveri vengono messi in fosse comuni e poi bruciati, successivamente vengono costruiti i forni crematori.
Tutti i deportati sono da considerare “lavoratori coatti”, il loro sfruttamento economico è un obiettivo fondamentale del sistema concentrazionario, ma vengono creati anche campi appositi dove finiscono politici, partigiani, internati militari, ma soprattutto persone giovani e abili al lavoro fermate con pretesti vari e costrette ad andare in Germania per lavorare nelle aziende tedesche carenti di manodopera. I novaresi deportati come lavoratori coatti finiscono in gran parte a Chemnitz e a Zwichau, sottocampi di Flossenbürg, in Sassonia, a ovest di Dresda. Sono lager costruiti, come nel caso dei KL, vicino a fabbriche o miniere. I deportati vivono in baracche di legno, con poco cibo, e lavorano nelle fabbriche situate nelle vicinanze. Tuttavia godono di un minimo di libertà, impensabile negli altri campi, potendo a volte circolare nel paese senza sorveglianza [2]. Ricevono i pacchi della Croce Rossa Internazionale (situazione simile ai prigionieri di guerra), possono comunicare con le famiglie e ottengono in molti casi una specie di compenso che giustificava agli occhi della Germania, della Rsi e della CRI la condizione di “liberi lavoratori”, mascherando la loro effettiva situazione di deportati. Era difficile, ma non impossibile, la fuga, ma ogni atto di disobbedienza poteva significare punizioni pesanti e l’immediato trasferimento in un KL.
I campi di transito (Polizei und Durchgangslager) italiani (Borgo San Dalmazzo, Fossoli, Risiera di San Sabba e Bolzano-Gries) attivi durante il periodo di occupazione tedesca sono concepiti per rinchiudere principalmente politici ed ebrei in attesa di un loro trasferimento nei campi del nord Europa (KL e VL). Sono in parte strutture preesistenti (ex caserma, Borgo San Dalmazzo, o campo per prigionieri di guerra, Fossoli), in parte lager di nuova costruzione. Nonostante la natura di “transito”, numerose sono le violenze e le uccisioni (alla Risiera era attivo un forno crematorio), ma anche l’utilizzo dei deportati per fini economici nelle aziende locali (come a Bolzano e nei suoi sottocampi). I deportati novaresi che passano o restano in questi campi li troviamo a Fossoli e a Bolzano.
I “campi del duce” sono campi di concentramento (la normativa del maggio 1940 parla di “internamento”[3]) per civili stranieri residenti in Italia (ebrei e non) e italiani politicamente pericolosi. Con l’inizio della guerra le vicende dei confinati (in precedenza per gli oppositori politici c’era il confino di polizia e alcune isole come Ponza o Lipari, prima adibite al confino, diventano campi di internamento) si intrecciano quindi con quelle degli stranieri appartenenti a nazioni nemiche e con quelle degli ebrei stranieri. Nel database sono inseriti solo i casi degli ebrei stranieri.
Vi è una differenza tra internamento libero, di fatto l’obbligo di residenza in alcune località, e internamento nei campi, vecchie strutture riutilizzate o nuove costruzioni[4]. Il tipo di internamento dipende dal grado di “pericolosità” delle persone e garantisce condizioni di vita diverse: nei campi piccoli e nell’internamento libero le restrizioni sono minori. Tutti quelli non autosufficienti ottengono un sussidio che permette loro di comprarsi il cibo, tranne gli internati slavi nei campi gestiti dall’esercito: il vitto viene loro fornito dai militari ed è insufficiente per vivere. Solo chi riceve pacchi alimentari dalle famiglie sopravvive un po’ meglio, ma in genere la fame e la denutrizione sono molto diffusi. Durante la guerra le condizioni di vita peggiorano anche nei campi gestiti dal Ministero dell’Interno, per questo dall’estate del ’42 viene concesso agli internati non pericolosi di svolgere un lavoro esterno al campo per integrare il sussidio, anche se per gli ebrei restano le restrizioni fissate dalla precedente legislazione. Le persone in internamento libero vivono in condizioni migliori perché possono avere rapporti con gli abitanti del posto e questo permette talvolta pure agli ebrei di svolgere lavori che ufficialmente sarebbero stati proibiti. Dopo il 25 luglio 1943 la liberazione degli internati avviene con molte lentezze burocratiche e ufficialmente è decisa solo dopo l’8 settembre, in ottemperanza alle disposizioni dell’armistizio. Nel novembre queste disposizioni sono abrogate dal nuovo governo della RSI e con l’ordinanza di polizia n.5 del 30 novembre si stabilisce l’arresto e la reclusione di tutti gli ebrei (italiani e stranieri) presenti sul territorio.
Nella vecchia provincia di Novara (comprendente anche l’attuale Vco) non sono presenti campi, così come non ci sono nel resto del Piemonte. Per quanto riguarda invece l’internamento libero, sulla base delle ricerche della storica Anna Pizzuti[5], si possono individuare cinque località novaresi (Baveno, Romagnano Sesia, Oleggio, Verbania, Vespolate) che nel periodo tra il 1940 e il 1943 ospitano complessivamente dodici internati, tutti di origine ebraica.
[1] Oltre a quanto scritto da Hitler nel Mein Kampf, alle ripetute minacce di sterminio per gli ebrei come nel discorso al Reichstag del 30/1/1939, alle stragi compiute dagli Einsatzgruppen al seguito delle forze armate durante l’invasione della Polonia e poi dell’Urss, va ricordata anche la circolare di Göring a Heydrich del 31 luglio 1941: “…Vi incarico inoltre di sottomettermi nel prossimo futuro un piano completo delle misure organizzative, pratiche e materiali che sarà necessario prendere per l’attuazione dell’auspicata soluzione finale [Endlösung] della questione ebraica” (cit. in Raoul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, 1995).
[2] Cfr. Gianluigi Molinari, Da Intra a Zwickau, andata e ritorno, Guardamagna editori in Varzi, 2001.
[3] Circolare n. 442/38954 del 1° giugno dal Ministero degli Interni ai Prefetti (cfr. Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi, 2014).
[34] Si tratta di 48 campi gestiti dal Ministero degli Interni e situati per lo più nel centro-sud Italia (il più noto è a Ferramonti di Tarsia nei pressi di Cosenza) e di 16 gestiti dall’esercito, di cui 4 nelle zone slave occupate dall’Italia nel 1941 (cfr. Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi, 2014).
[5] Anna Pizzuti, Vite di carta, Donzelli, 2010; www.annapizzuti.it