Le prime fasi di sviluppo dei campi di concentramento tedeschi, che coincidono con i primi anni del regime hitleriano, sono caratterizzate dall’utilizzo dei detenuti per attività anche lavorative ma a scopo “rieducativo” non certo produttivo. La situazione cambia dopo il 1936, anno in cui il sistema concentrazionario viene posto sotto il controllo della polizia di sicurezza (SIPO) e del servizio di sicurezza delle SS (SD), entrambi comandati da Reinhard Heydrich e dal suo superiore Heinrich Himmler. A questo punto il lavoro dei deportati incomincia ad essere finalizzato ad obiettivi economici: le SS aprono e gestiscono fabbriche nei campi costruiti vicino a cave o fornaci[1]. A partire dal 1939 a queste si affiancano le aziende private tedesche con il medesimo scopo: sfruttare manovalanza gratuita.
Con la guerra e in seguito all’invasione dell’Urss si intensifica lo sfruttamento economico dei deportati a cui si aggiungono i lavoratori prelevati a forza dai territori orientali e impiegati in Germania. L’anno di svolta è il 1942 quando viene creato l’Ufficio centrale per le questioni economiche e amministrative (WVHA) e il capo di questa istituzione, Oswald Pohl, il 30 aprile emana una circolare ai comandanti dei campi, compresi quelli di sterminio, invitandoli ad utilizzare in modo sistematico tutti i prigionieri per soddisfare le esigenze economiche della Germania visto il prolungarsi della guerra[2]. In questi mesi si assiste alla “proliferazione dei cosiddetti sottocampi o campi esterni (Aussenlager) che fece sì che intorno ai campi base o campi principali si ramificassero una serie di filiali, talvolta a notevole distanza dallo Stammlager, che diventava così a sua volta l’epicentro di un sistema policentrico[3].”
A partire dal 1943 la Germania è sempre più in difficoltà per la presenza nel Mediterraneo degli Usa e la controffensiva russa, per questo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 può almeno servire per risolvere in parte la situazione di ormai cronica mancanza di manodopera in un momento in cui la Germania deve aumentare considerevolmente il proprio sforzo bellico[4]: i deportati italiani (politici, militari e civili) arrivano quindi quando la macchina tedesca dello sfruttamento economico è in piena attività. Sui lavoratori civili si punta particolarmente l’attenzione pensando di poterne mandare in Germania una grande quantità. Per questo si procede a reclutamenti per lo più forzati senza grossi problemi nei territori inglobati direttamente nel Reich come il Trentino e il Friuli (Voralpenland e Adriatisches Kustenland), mentre nella Francia di Vichy, dove erano presenti oltre 500.000 italiani[5] e nella Rsi il reclutamento avrebbe dovuto essere concordato con le autorità locali. Inoltre l’obiettivo di trasferire il maggior numero possibile di italiani in Germania come lavoratori coatti si scontra con chi, anche all’interno della dirigenza tedesca, è più propenso a trattenere nei paesi d’origine i lavoratori occupati in aziende a produzione bellica utili per la Germania o nelle aziende tedesche del gruppo Todt, presenti in Francia e in Italia. Posizione appoggiata in Italia dall’ambasciatore Rudolph Rahn, plenipotenziario del Reich e dal rappresentante delle SS Karl Wollf, favorevoli a una linea più moderata e che comporti il coinvolgimento delle autorità italiane della Rsi nell’invio dei propri cittadini in Germania[6] al fine di ridurre fenomeni di resistenza contro i tedeschi e fughe nei gruppi partigiani. La collaborazione delle autorità italiane ci sarà[7], pur con molti limiti dovuti a carenze organizzative, ma gli obiettivi non vengono raggiunti e per questo iniziano meticolosi rastrellamenti prima cercando di ottenere “volontariamente” operai disposti a trasferirsi in Germania e poi passando a vere e proprie operazioni di razzia: “in pieno giorno, nei grandi centri, pattuglie motorizzate tedesche chiudevano, con improvvisati posti di blocco volanti, un incrocio, un bivio, una strada o una piazza e i passanti sprovvisti di documenti oppure che non erano in grado di dimostrare di avere un’occupazione venivano deportati come lavoratori coatti[8].” Questo accade non solo nelle città, nei piccoli paesi di montagna, a Verbania come a Baveno, ma la manovalanza a bassissimo costo viene reperita anche prelevando scioperanti nelle fabbriche o tifosi di calcio all’uscita dagli stadi[9]. Tutto questo almeno fino all’ottobre 1944 quando con gli accordi di Bellagio tra Mussolini e Hitler i tedeschi rinunciano ad usare metodi coercitivi per ottenere lavoratori.
Le misure adottate dalle autorità tedesche tendono quindi ad oscillare tra l’arruolamento volontario e le razzie generalizzate. Il numero degli italiani portati in Germania come lavoratori coatti raggiunge la ragguardevole cifra di circa 100.000 persone durante il periodo di occupazione tedesca. Si tratta di civili che rientrano nei bandi d’arruolamento (quelli che si presentano volontariamente e quelli che vengono catturati come renitenti); di lavoratori direttamente prelevati nelle aziende e in accordo con le autorità italiane; di lavoratori, studenti o altro, presi “a margine” di rastrellamenti[10] o semplicemente arrestati e portati in Germania a lavorare. Queste persone si aggiungono alla quantità più o meno simile di lavoratori italiani emigrati in Germania a partire dal 1938[11] e trattenuti a forza dal settembre 1943, o in alcuni casi anche prima come risulta dalla vicenda della bavenese Maria Viel.
Le condizioni di vita per i civili sono in molti casi migliori rispetto alla norma, ma anche per loro il lavoro pesante, le malattie e le violenze portano spesso alla morte. Naturalmente la condizione di vita e di lavoro cambia a seconda che si sia un ebreo, un politico o un civile, che ci si trovi ad Auschwitz, a Mauthausen o a Zwickau[12] e la destinazione è determinata dalle motivazioni che portano all’arresto, dal comportamento tenuto dai detenuti o anche dal caso. In base alle attuali informazioni i lavoratori coatti presenti nel database sono circa il 16% del totale e comprendono gran parte dei civili novaresi deportati e una ventina tra politici, partigiani o loro collaboratori.
[1] Enzo Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista e Brunello Mantelli, Il lavoro forzato nel sistema concentrazionario nazionalsocialista, entrambi in I campi di sterminio nazisti, a cura di Giovanna D’Amico e Brunello Mantelli, Franco Angeli, 2003.
[2] La circolare Pohl, Consiglio regionale del Piemonte, Aned, F. Angeli, 1991.
[3] Enzo Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista, cit.
[4] “L’uscita dell’Italia dalla guerra ebbe certamente almeno un aspetto positivo agli occhi della dirigenza nazista: la possibilità di attingere ad un notevole serbatoio di manodopera, rappresentato in primo luogo dai militari italiani e in secondo luogo dai civili residenti in Italia, proprio in un momento in cui la Germania aveva un notevole bisogno di braccia.” (Luigi Cajani, Gli internati militari italiani nell’economia di guerra nazista, in Fra sterminio e sfruttamento, a cura di Nicola Labanca, Casa Editrice Le Lettere, 1992)
[5] Nel database sono presenti anche novaresi residenti in Francia e da lì deportati in Germania: Pacifico Aina, Alcide e Fulvio Gastaldi, Pietro Guenzi, Renato Langhi, Fulvio Patritti, Giacomo e Domenico Zaninetta.
[6] Cfr. Lutz Klinkhammer, Reclutamento forzato di lavoratori e deportazione di ebrei dall’Italia in Germania 1943-1945, in L’emigrazione tra Italia e Germania, a cura di Jens Petersen, Pietro Lacaita Editore, 1993.
[7] Aumentando l’orario di lavoro a 45 ore in tutte le fabbriche nel marzo del 1944 e mandando la manodopera eccedente in Germania. Successivamente a giugno accettando di inviare come lavoratori coatti i detenuti condannati con sentenza definitiva e poi tutti i politici, in seguito alle pressanti richieste tedesche. Ma non va dimenticata anche la trasformazione degli IMI in lavoratori coatti in agosto. (Cfr. Brunello Mantelli, L’arruolamento di civili italiani come manodopera per il Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943, in Fra sterminio e sfruttamento, cit.)
[8] Giuseppe Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945, Bollati-Boringhieri, 2002.
[9] Nel libro di Giuseppe Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945, cit., sono ricordati i 1448 deportati di Genova dopo gli scioperi del giugno 1944 nelle fabbriche: pare che in questo caso ci fossero esplicite richieste di un’azienda tedesca bisognosa di operai e delle aziende gestite dalla SS a Mauthausen altrettanto carenti di manodopera. Nello stesso periodo e con gli stessi obiettivi vengono rastrellati in Val di Susa un migliaio di maschi abili al lavoro tra i 15 e i 60 anni (villeggianti compresi). Il 2 luglio 1944 a S. Siro, al termine della partita Milan-Juventus, le SS e i soldati italiani alle loro dipendenze lasciano uscire solo donne e bambini. A tutti i maschi controllano i documenti e trattengono trecento persone tra i 18 e i 28 anni che vengono caricate su autocarri e spariscono. Sull’episodio di Genova cfr. anche Brunello Mantelli, L’arruolamento di civili italiani come manodopera per il Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943, in Fra sterminio e sfruttamento, cit.
[10] “Nella misura in cui il reclutamento di manodopera italiana per la Germania tende a far un uso sempre maggiore di tecniche coattive, si sfumano le distinzioni fra azioni repressive condotte dalle forze armate del Reich per svuotare potenziali bacini di alimentazione delle formazioni partigiane e rastrellamenti tesi a recuperare giovani sottrattisi alla precettazione per il lavoro obbligatorio.” (Brunello Mantelli, L’arruolamento di civili italiani come manodopera per il Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943, cit.)
[11] Nella primavera del 1937 i tedeschi contattano l’ambasciata italiana a Berlino chiedendo lavoratori italiani per il settore agricolo. La carenza di manodopera in Germania e le decine di migliaia di disoccupati in Italia favoriscono gli accordi per avviare l’emigrazione controllata e programmata di lavoratori italiani verso la Germania che inizia nel 1938: ai contadini seguono già dal 1939 i lavoratori dell’industria. Gli eventi bellici accrescono la richiesta tedesca soprattutto nei settori industriali e l’Italia, in cambio di rifornimenti bellici ed energetici, garantisce quote di lavoratori prelevandoli anche tra gli operai occupati nelle aziende italiane. Le richieste di rimpatrio avviate dall’Italia nel 1943 in seguito allo squilibrio tra le ingenti rimesse degli emigranti trattenute in Germania e le forniture di carbone per l’Italia sempre più scarse, sono inizialmente accettate da Hitler, nonostante le proteste delle industrie tedesche, ma a luglio la caduta di Mussolini blocca ogni accordo e l’armistizio di settembre permette alla Germania di trattenere a forza i circa 100.000 italiani ancora presenti. Cfr. Luca Cajani/Brunello Mantelli, Lavorare in Germania: gli italiani dall’“Asse” al Mercato Comune Europeo, in L’emigrazione tra Italia e Germania, cit.; Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, La Nuova Italia, 1992.
[12] “I soldi erano quei pochi che la fabbrica ci dava mensilmente e che servivano a dimostrare ai tedeschi al governo italiano e alla Croce Rossa Internazionale che noi eravamo comuni lavoratori. […] Senza bollini annonari si acquistava solo birra e crauti che, venduti alla mensa in fabbrica, erano immangiabili anche per noi affamati; amari ed acidi, macerati dall’aceto. […] La birra invece era buona ma non si vendeva in mensa. Potevamo andarla a bere nella birreria in Moseler Strasse di fronte al cancello del lager.” (Gianluigi Molinari, Da Intra a Zwickau, andata e ritorno, Guardamagna editori in Varzi, 2001)