“Tutti i giornali comparsi dopo la Liberazione hanno lodevolmente messo giustamente in luce opere, sacrifici e disagi sofferti dai partigiani. Nessuno ha mai accennato ai fatti che si svolsero a Intra il 15 giugno 1944, fatti che si conclusero con la deportazione in Germania di 86 Verbanesi. Non riuscirò mai a cancellare dalla mente il ricordo di quel mattino del 17 giugno, quando carichi di carne da macello, cinque camions tedeschi si muovevano dal piazzale delle scuole femminili, verso destinazione a tutti ignota[1].”
Le considerazioni amare dell’autore di queste frasi sono pienamente giustificate non solo in relazione all’immediato dopoguerra, ma soprattutto pensando al velo di oblio calato negli anni successivi sulla vicenda di questi ragazzi che arrivati alle Casermette di Borgo S. Paolo a Torino vengono subito etichettati come “gli 86 di Verbania”. Solo in tempi più recenti, a partire dagli anni Novanta, a volte casualmente, sono riaffiorati quei fatti durante alcune interviste e infine grazie alla stesura di due memorie (in un caso si tratta parzialmente di un inedito, un’edizione privata, o meglio autogestita, come scrive l’autore) scritte dai protagonisti di quegli eventi[2].
Probabilmente questa storia ne nasconde altre analoghe di cui forse si è persa totalmente memoria e si intreccia con altre deportazioni che avvengono negli stessi giorni sul lago Maggiore e che avranno gli stessi sviluppi[3].
Il 14 giugno 1944 è appena iniziato il rastrellamento in Val Grande quando a Verbania appare un bando che impone il coprifuoco e ordina a “tutti gli appartenenti alle classi dal 1914 al 1927” di presentarsi alle scuole elementari femminili, sede del comando tedesco, muniti di documenti. Due giorni dopo un altro bando avverte che dal giorno successivo tutti quelli appartenenti alle classi citate sprovvisti del “timbro del Comando Germanico vengono dichiarati come banditi e sono sottoposti alla pena di morte”. Alcuni fiutano il pericolo e non si presentano, altri pensano invece si tratti di una semplice procedura burocratica. Tra questi ci sono Gianluigi Molinari, diciassette anni non ancora compiuti come il compagno Alberto Ziviani, studenti al liceo classico dei padri Marianisti di Pallanza. Ziviani però non si presenta spontaneamente alle scuole elementari, ma già dal 15 giugno si trova lì in arresto perché denunciato come collaboratore dei “ribelli”: faceva la staffetta per i partigiani del Valdossola. Solo gli interventi del padre e la sua giovane età lo salvano dalla condanna a morte che viene trasformata in deportazione e la sua storia si intreccia di nuovo con quella degli altri verbanesi.
Oltre a studenti come loro, vengono presi anche partigiani come Mario Catena o Francesco Magistris, Umberto Pella e Aldo Ruffo, questi ultimi rastrellati in Val Grande .
Non tutti quelli che si presentano alle scuole femminili subiscono però la stessa sorte: molti riescono a fuggire[4], ma alla fine dopo due giorni di attesa vengono portati via 86 ragazzi. In camion percorrono tutto il lago fino a Novara e da lì arrivano a Torino, alle Casermette di Borgo San Paolo. Durante il breve periodo di detenzione a Torino, entrando in contatto con altri prigionieri soprattutto politici, alcuni di loro cominciano a maturare convincimenti antitedeschi e antifascisti[5]. Il 25 giugno assieme a molti altri giovani catturati in modo analogo, sono circa in quattrocento, partono dalla stazione di Torino, dove ad attenderli ci sono alcuni parenti fortunosamente avvertiti[6], e si dirigono verso il Bennero. Dopo quattro giorni arrivano al lager di Chemnitz, a qualche chilometro da Dresda, e lì restano alcune settimane prima di essere nuovamente trasferiti, ai primi di luglio, in un altro lager più a sud, un sottocampo di Flossenbürg, Zwickau, definito Betriebslager Polbitz[7].
Lavorano in un’azienda automobilistica, la Werk Audi che appartiene al gruppo Auto Union, e vengono mandati sulle catene di montaggio nei diversi reparti adibiti alla produzione di camionette militari. Sono controllati da personale civile tedesco e lavorano anche con altri tedeschi.
Da Zwickau alcuni di loro non torneranno più, altri lo faranno quando il campo verrà liberato, Molinari e Ziviani, assieme a Franco Mondolfo, riescono invece a fuggire nell’autunno del 1944, ma restano bloccati a Innsbruck dove incontrano militari italiani prigionieri che li aiutano a trovare una sistemazione e un lavoro in Tirolo per gli ultimi mesi di guerra, fino all’arrivo degli statunitensi.
Degli “86 di Verbania” deportati come lavoratori coatti al momento risultano nel database solo 21 nomi certi o altamente probabili. Forse ce ne sono altri ma le informazioni non sono sufficienti per farli rientrare in questo gruppo. La loro storia si intreccia sicuramente con quella di civili della zona catturati e deportati in quei giorni, come il gruppo di Baveno (o quanto meno gran parte di loro, perché di alcuni si ignora la destinazione) che viene mandato negli stessi campi di lavoro dei verbanesi.
[1] L’articolo a firma “bieffe (uno degli 86)” compare il 15 dicembre 1945 su un foglio partigiano locale, Monte Marona.
[2] Si tratta di Gianluigi Molinari, Da Intra a Zwickau, andata e ritorno, Guardamagna editori in Varzi, 2001 e dei racconti di Alberto Ziviani, 1944: Preludio di un dramma (scritto tra il 1997 e il 2001) e 1945: Primavera della Libertà (scritto tra il 2001 e il 2002 in parte sulla base di appunti risalenti al 1945).
[3] Il 20 giugno 1944 un’azione partigiana a Baveno per catturare tedeschi da scambiare con altri prigionieri (è lo stesso giorno in cui avviene la fucilazione dei partigiani a Fondotoce) porta all’uccisione di un capitano tedesco e di un maggiore della Gnr. Il capitano Stamm, comandante del III battaglione SS-Polizei, Reggimento 20, reparto coinvolto in quei giorni nel rastrellamento in Val Grande, dal suo quartier generale a Baveno ordina la cattura di un buon numero di abitanti del luogo. Queste persone inizialmente destinate alla fucilazione vengono poi in gran parte deportate seguendo lo stesso tragitto fatto dai verbanesi qualche giorno prima: Torino, Casermette S. Paolo, e poi i campi di lavoro tedeschi. A Baveno il 21 giugno vengono comunque fucilati per ritorsione 17 partigiani catturati durante il rastrellamento della Val Grande.
[4] Una fuga riuscita viene raccontata dal partigiano verbanese Arialdo Catenazzi, classe 1924. “Entrai nei bagni della scuola e […] con una lametta che avevo in tasca tagliai i cordoni delle tende che coprivano le finestre e ne feci una corda per calarmi nel cortile. Attesi che i tedeschi abbandonassero il cortile per scendere nella mensa […] e poi mi calai di sotto. […] Seppi poi che con la mia corda ne scapparono altri 13. Il quattordicesimo si trovò un mitra spianato mentre scendeva.” (Dall’intervista rilasciata ad Antonella Braga e Mauro Begozzi, in Resistenza Unita, giugno 1994)
[5] “Con l’amico Emanuele Levati avevo pensato sul finire del 1943 di scappare di casa per andare a combattere contro i nemici, gli inglesi, perché, pensavamo, non si può perdere una guerra: ora vedo che il nemico è dall’altra parte.” (Gianluigi Molinari, Da Intra a Zwickau, andata e ritorno, cit.)
[6] “Così sul marciapiede del primo binario incontro mia mamma con la mamma di Alberto Ziviani. Mia mamma è impietrita dal dolore, la mamma di Alberto piange come una fontana.” (idem)
[7] Il «campo della fabbrica» si trova in Moseler Strasse al numero 5, nel paese di Zwickau. (idem)