I testimoni
Testimonianza di Carlo Suzzi
(sopravvissuto all'eccidio)
Erano circa le sei di un pomeriggio afoso. Nuvole calde e soffocanti coprivano il cielo. Intorno una radura a prato con qualche sterpaglia. Eravamo vicino all'acqua dei canale che forma come una grande pozza, con intorno un canneto. Più lontano, a sinistra, la grande massa di acqua dei lago Maggiore e dall'altra, quasi in semicerchio, il Mottarone, Monte Orfano, Monte Acuto, la Valdossola, e più indietro ancora i contrafforti della Valgrande. Dodici tedeschi si schierano in piedi e altri dodici in ginocchio. Erano armati di fucili Mauser. Fecero alzare i primi tre partigiani e li discostarono dal plotone. Fra essi c'era la buona Cleonice. I tre si strinsero. Sentii gridare: "Facciamo vedere come sappiamo morire. Viva l'Italia". Poi una scarica ed i tre corpi caddero in direzioni diverse.
Venne la volta degli altri tre. La scena si ripeteva, con ritmo allucinante. I tedeschi compivano l'operazione come se fossero ad un mattatoio, e i partigiani non avevano gesti di ribellione, preoccupati soltanto di morire con dignità.
Tutto durò diversi minuti perché i tedeschi avevano cura di rimuovere i corpi dei fucilati dal luogo ove erano stati abbattuti scaraventandoli da una parte verso l'acqua.
In quei minuti mi pareva di sognare. Non credevo possibile che sarebbe toccato anche a me. Attendevo sempre un intervento estremo. Non sapevo quale. Mi vennero molti ricordi della mia vita, come in un film. Rapidamente ripensai a tutto. Pensai anche a quando ero bambino, poi a quando da ragazzino scappai da casa, fino a quando andai coi partigiani, ai grandi momenti di entusiasmo dei primi risultati dei nostro lavoro e alle vicende belle e brutte degli scontri. Pensai con rimpianto a mia madre, a mio padre in Germania e alla nonna che mi voleva tanto tanto bene. Quei pensieri mi procurarono una grande sofferenza. Mi pareva di giudicare il mondo come dall'alto.
Ma il mondo mi sembrava più bello, come se lo scoprissi allora: più belle le montagne, meraviglioso il lago, più tenera l'erba. Rimpiangevo di lasciare tutto ed avevo una gran voglia di sfuggire a quella atroce sorte.
Quelle riflessioni furono interrotte dalla stretta di due tedeschi che mi afferrarono al collo; era il mio turno. Dovetti alzare i piedi per non pestare il sangue ed i corpi dei compagni uccisi.
Come inebetito mi abbracciai con Rizzato, che aveva il cappello di alpino, ed il ragazzino quindicenne. Mi voltai e feci appena in tempo a vedere le vivide fiamme uscire dalle canne e contemporaneamente sentii un tremendo colpo alla schiena, come una bastonata. Caddi per primo. Mi accorsi d'aver ricevuto due colpi al braccio sinistro e uno alla scapola destra. Le pallottole erano fuoriuscite: anche alla tempia ero stato colpito di striscio.
Ero stordito, ma mi sforzai sempre di capire cosa succedeva intorno a me. Seppi che Rizzato mi era caduto addosso e di traverso a quello di Varese, che pure era sopra di me. Tutto era poco più che una sensazione perché era come in un sogno. Mi sembrò tuttavia d'essere ancora vivo, perché respiravo. Ma non ne ero proprio sicuro, non mi sembrava possibile. Poi sentii il sangue di Rizzato che mi scendeva caldo a piccoli rivoli sul viso, su quella parte che avevo scoperto. L'occhio sinistro, dalla parte del viso scoperto, l'avevo aperto, ma non osavo chiuderlo. I tedeschi erano lì a pochi passi. Forse da quei momento si fece strada nella mia coscienza l'idea di tentare il possibile per non morire. Fu un'idea che mi esaltò. Vidi l'erba e l'acqua vicino alla mia testa. I riflessi cominciavano a reagire.
Decisi di restare immobile con gli occhi aperti, e a bocca aperta perché non si vedesse il movimento del respiro. Poi sentii altri spari, gli "Evviva l'Italia" dai miei compagni che affrontavano il plotone di esecuzione. Anche se non potevo fissare lo sguardo vedevo le sagome di quegli uomini, così diversi nel fisico e nei laceri stracci che avevano addosso; alti, piccoli, barbuti, calvi, vestiti con lunghi pantaloni o in calzoncini, in maglietta o in maniche di camicia. Tutti però sereni e forti. Soltanto uno, quello alto che portava il cartello era impazzito. Si era messo a correre per il prato. I tedeschi lo afferrarono e lo trascinarono a forza vicino a noi. Un tedesco lo tenne per il bavero della giacca ed un altro gli sparò con la pistola sui viso. L'ultimo disperato urlo e poi il silenzio. La voce dei partigiani era spenta.
I tedeschi ridevano. E la loro allegria esplose quando giunsero alla fine dell'operazione, come se la risa facessero parte dei rito. Con perfetta forma militare e per nulla scomposti dalla scena i tedeschi si ricomposero in formazione. Ma improvvisamente uno di loro si staccò dal gruppo e si diresse verso di noi. Aveva una lunga pistola in mano. Compresi subito che voleva darci il colpo di grazia. Non certo per risparmiarci le sofferenze, dopo quello che ci avevano fatto, ma per tìmore che qualcuno potesse sopravvivere. L'istinto mi aveva suggerito di alzarmi e scappare ammesso che le forze me lo avessero consentito ma pensai meglio di restare immobile. Trattenni il respiro, ma dentro il cuore mi batteva forte.
Attesi. Avevo l'occhio sempre aperto. Il tedesco mi fu sopra a gambe divaricate. Lo vedevo di sotto in su. Vidi il foro nero della canna della pistola che teneva abbassata. Sparò sul ragazzo di Varese. Se ne andrà, pensai. Invece sostò ancora, sentii che toccava a me. Trattenni il fiato, pronto a morire. Il colpo partì. Sentii un bruciore irresistibile al capo e uno spruzzo di terra mi cadde sul viso; la pallottola aveva sfiorato soltanto la parte cutanea del capo e si era conficcata al suolo. Sparò ancora, poi rimise la pistola nella fondina e se ne andò. Sentii gli automezzi mettersi in moto ...
Anche i fascisti spararono delle raffiche verso di noi.
Malgrado tutto questo in quell'ammasso di carne umana in cui mi trovavo la vita non era dei tutto spenta; udivo rantoli e sangue sgorgare e gorgogliare, per i movimenti dei visceri; vedevo le vesti inzupparsi sempre più di rosso. I fascisti, secondo l'ordine ricevuto, incominciarono a deviare la popolazione verso di noi perché apprendesse la lezione. Nei pressi vivevano alcuni lavoratori della Montecatini e piccoli agricoltori che l'estate affittavano le proprie case ai turisti. Uno dei miei compagni rantolava ancora forte; un fascista gli scaricò l'arma addosso.
Una donna mi guardò e vedendomi con gli occhi aperti gridò: "Questo è ancora vivo". Sentii la voce di un uomo, che non vedevo, sussurrare: "Se sei vivo, sta fermo. Ti diremo noi quando ti devi muovere". Sarò rimasto circa due ore in quello stato. Le ombre della sera cominciarono a calare e tutto era senza contorni ...
Mi parve di sentirmi in forze. Attraversai la strada e salii il pendio che conduce a Santino. Ormai era buio pesto. Le forze mi abbandonarono di nuovo e non distinguevo più le cose. Udii un cane abbaiare. Mi confortò, perchè compresi che c'era una casa. Camminai ancora e trovai una baita. Attraverso la finestra si scorgeva una debole luce. Bussai alla porta, ma caddi. I sensi li ripresi dopo qualche ora e mi trovai tutto fasciato. Un premuroso vecchietto, Carlo Bariatti, mi aveva disinfettato con l'urina. Aveva un viso buono, Bariatti.
[Testimonianza di Carlo Suzzi in BARBIERI O., I sopravvissuti, Feltrinelli, Milano, 1972
e pubblicata in "Resistenza Unita" n° 6/1992]
Testimonianza di Emilio Liguori
(giudice di Verbania arrestato il 19 giugno perché sospettato di complicità con i partigiani e detenuto a Villa Caramora)
Ritratto del giudice Emilio Liguori.
[...] La porta della cantina si apre e viene fatta entrare una trentina di persone, spinte avanti da calci e a colpi di canna di moschetto da una squadra di omacci inferociti, bestiali, i quali indossano la cosiddetta onorata divisa del soldato del popolo eletto, dell’herrenvolk, del superpopolo: il teutonico.
La scena che dopo l’ingresso in cantina di tanti disgraziati si presenta al mio sguardo, è delle più penose alle quali io abbia mai assistito”.
Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un branco di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio del moschetto, le nerbate non si contano più. E’ una vera gragnuola che si abbatte inesorabilmente su dei miseri corpi già grondanti sangue per ogni dove, su dei visi già tumefatti per le percosse ricevute in precedenza. Gli aguzzini sembrano presi nel turbine di un sadico furore, in preda al delirium tremens di marca tipicamente teutonica.
Ogni nerbata, ogni colpo è per giunta accompagnato da un grugnito che sta a indicare la compiacenza dei carnefici. Una scena orribile, dico, con la quale contrasta con la nobile serenità dei torturati. Non un grido, non un lamento. Una fierezza diffusa sul volto di tutti. Dal mio posto di osservazione ogni tanto sono costretto a chiudere gli occhi per non vedere. Temo di impazzire per lo sdegno suscitato in me da tanto scempio, cui sono costretto ad assistere impotente.
Il vertice della furibonda esplosione di odio contro quei poveri partigiani viene raggiunto quando, ordinato loro di distendersi bocconi a terra, i teutonici si mettono a pestarli camminandoci sopra con gli scarponi chiodati, grugnendo animalescamente.
Noto che tra i partigiani vi è una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non vengono risparmiati i maltrattamenti; anzi, sto per dire che la dose delle angherie sia nei suoi confronti maggiore. Mi pare che quando arriva il suo turno il nerbo si abbassi sulle sue spalle con maggior furore e più violenti sono i calci che la raggiungono da ogni parte. Eppure quella coraggiosa donna non solo incassa ogni colpo senza emettere un grido, ma, calma e serena, fa coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale.
Ravviso con una fitta al cuore, che tra i partigiani c’è anche il caro tenete Rizzato del campo 12 (il comando di Orfalecchio) l’aiutante maggiore del gruppo.
Sul suo bel volto, di un ovale perfetto, dagli occhi già pieni di tanta luce, è diventato una povera maschera intrisa di sangue, orribilmente tumefatta per le percosse ricevute. Lo riconosco a stento”.
” I guardiani danno un’occhiata alla loro divisa. Alcuni si tolgono la tuta mimetica, rimanendo in camicia e pantaloni marrone. Qualcuno manovra per provare i congegni dell’arma della quale è in possesso; tutti poi si danno con fervore a ravviarsi i capelli, guardandosi nello specchio del quale ognuno è in possesso, e avendo cura che la scriminatura segni un’impeccabile linea retta, dall’occipite alla regione frontale sinistra, senza sgarrare di un pelo.
Tutto questo dà l’impressione di gente in procinto di recarsi ad assistere a uno spettacolo che si preannunci assai divertente, e non già di persone che, per contro, si accingono a compiere un eccidio senza nome. Lo spettacolo che sta per essere ammannito viene subito intuito dalla donna (Cleonice Tomassetti) alla quale ho accennato sopra. Costei si leva in piedi e con fare spontaneo, senza forzare il tono della voce, direi quasi con amorevolezza, rivolta ai compagni di sciagura pronuncia queste testuali parole: “su, coraggio ragazzi, è giunto il plotone d’esecuzione. Niente paura. Ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi”.
Ha appena finito di parlare che, infuriato, le è addosso un soldato germanico che deve capire un poco l’italiano o che del senso delle parole pronunciate viene messo al corrente da un militare italiano. (Quale schifo il contegno servile verso i padroni tedeschi dei militi fascisti! Non di tutti per fortuna, perchè ne vedo più di uno fremere di rabbia osservando ciò che di orribile si compie attorno a lui).
La donna, colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso, non si scompone; incassa impassibile, e poi, fiera e con aria ispirata, quasi trasumanata, dice parole, che, per mio conto, la rendono degna di essere paragonata ad una donna spartana, o meglio ancora ad una eroina del nostro Risorgimento:” Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che è opera vana: quello non lo domerete mai!””, poi rivolta ai compagni ” Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti”, grida con voce squillante.
[da E. LIGUORI, Quando la morte non ti vuole, Alberti]